di Monika Prusak
Come è iniziata la sua avventura con la musica?
«Tutto ebbe inizio nella primissima infanzia, negli anni ‘89-’90, quando avevo circa 4-5 anni e mi piaceva molto ascoltare il suono dell’organo. Questa è stata la mia prima fascinazione: la musica di Bach e la potenza del suono di quello strumento. Il mio sogno era quello di diventare organista. Solo più tardi ho iniziato a studiare il pianoforte in un centro musicale.
Più imparavo a suonare il pianoforte e più cominciavo ad essere attratto e affascinato da questo strumento, e capivo che sarebbe stato per me uno strumento più adatto. Quando ho conosciuto la musica di Chopin, mi sono convinto che questo sarebbe stato il mio mondo. E anche se l’organo è ancora piuttosto importante per me e suscita una sorta di fascino e ispirazione, non riesco ad immaginare di suonare un altro strumento».
A soli 20 anni, giovanissimo, ha vinto il XV Concorso Pianistico Internazionale F. Chopin di Varsavia. A quel tempo era ancora studente dell’Accademia di Musica di Bydgoszcz. Il Concorso Chopin è uno dei trofei pianistici più difficili e più alti del mondo. Come si sente un ragazzo così giovane quando arriva in finale di una competizione del genere? Come ci si prepara a quell’età a un’impresa così grande dal punto di vista tecnico e, soprattutto, emotivo?
«Prima di tutto, bisogna accumulare esperienze precedenti, sia concertistiche che concorsuali. Una delle esperienze più importanti per me, svolte prima del concorso di Varsavia, è stato il Concorso Pianistico Internazionale di Hamamatsu, in Giappone, nel 2003, durato più di tre settimane. C’erano quattro tappe, un repertorio molto vario e tutto questo mi ha aiutato a sviluppare una strategia per il concorso Chopin. Già allora decisi che avrei preparato un programma per l’edizione del 2005. Una questione importante è anche la possibilità di suonare davanti a un pubblico. È fondamentale sapere come ci comportiamo in situazione di una certa tensione e stress. Una volta decisi i brani che avrei eseguito al Concorso Chopin, ho portato questo programma a vari concerti, grandi e piccoli, per acquisire l’esperienza di suonare in pubblico. Quindi l’approccio emotivo è stato preparato molto prima. Penso che ogni fase dell’educazione musicale sia stata, in un certo senso, la preparazione all’evento più importante di tutta la mia vita artistica, proprio quel concorso».
Quella competizione è stata per Lei l’inizio di una brillante carriera che sta continuando tutt’oggi. Si esibisce senza sosta e registra per una delle migliori etichette discografiche al mondo. Come vede i suoi ultimi vent’anni di vita artistica, che cosa è cambiato? È ancora guidato da una missione artistica più alta o piuttosto tratta il suo lavoro come mestiere di altissimo livello? Esiste un confine tra questi due aspetti? Sono due questioni separate considerando il vivere a un ritmo vertiginoso e suonare un repertorio così vasto?
«Sicuramente a vent’anni, quando vinsi il concorso Chopin, non avevo le stesse riflessioni che ho adesso. Certamente le mie interpretazioni di allora erano diverse da quelle che metto in pratica oggi. Penso che questa sia una situazione del tutto naturale. Subito dopo il Concorso la situazione era complicata, perché mi ero imbattuto in alcuni aspetti e situazioni che non avevo mai affrontato prima. Ad esempio, è stato molto difficile per me decidere i programmi dei recital in date molto lontane. Non mi conoscevo abbastanza bene per determinare quanti concerti avrei potuto suonare in una stagione concertistica. Solo dopo due o tre anni ho iniziato a programmare il mio calendario concertistico con maggiore libertà e indipendenza. Oggi, ad esempio, so già che circa 50-55 concerti all’anno per me sono il numero ottimale. Ognuno di noi ha il proprio limite che ovviamente può cambiare nel tempo. Al momento questa cifra funziona e mi permette di mantenere un sano equilibrio tra suonare concerti, preparare un nuovo programma e nuovi progetti discografici, vivere la vita di tutti i giorni, stare con la famiglia e con gli amici, cercare ispirazione e, una cosa fondamentale, riposare.
Tornando a pensieri più profondi, vedo il mio ruolo di artista, pianista, come una certa missione di trasmettere bellezza, musica e valori estetici alle persone di tutto il mondo. Questa varietà e le molteplici volte in cui si suona davanti al pubblico non hanno offuscato questa missione, l’approccio che serve per non cadere in una routine malsana. Salire sul palco ogni volta con tanto entusiasmo, voglia di condividere con altre persone la bellezza della musica: voglio che il momento della performance sia sempre un evento che aspetto con trepidazione e a cui voglio partecipare davvero, e non solo un altro concerto che devo suonare per lavoro».
Ci stiamo lentamente avvicinando al suo recital milanese. Questo non è il suo primo concerto al Teatro alla Scala…
«Questa sarà la seconda volta. Per la prima volta ho suonato alla Scala nel 2012 con la Filarmonica della Scala diretta da Fabio Luisi. Allora stavamo preparando il quarto concerto di Beethoven. Tuttavia, è il mio primo recital da solista».
Si tratta di un concerto unico dedicato al grande pianista recentemente scomparso, Maurizio Pollini. Quali emozioni accompagnano un’occasione del genere? Il programma che sta presentando è stato scelto tenendo presente questa circostanza?
«Sì e no. Per la maggior parte è un programma che presento anche in altri concerti di questa stagione. Cerco sempre di monitorare la qualità dei concerti affinché non ci siano troppe variazioni di repertorio nella stessa stagione artistica, perché questo comporta un certo rischio di tralasciare la qualità artistica ed esecutiva. La Sonata al chiaro di luna è un’opera che porta con sé un certo messaggio, una riflessione, una contemplazione, ma anche una certa forza. È una composizione in contrasto con la Sonata di Mozart, più leggera nel suo messaggio emotivo. L’idea che sta alla base della scelta del programma di questa stagione artistica è il contrasto emotivo e tecnico tra le tre Sonate, Mozart, Beethoven e Chopin. Voglio anche sottolineare l’accento polacco del programma, motivo per cui ho optato per le Mazurke Op. 50, una tendenza importante nell’opera di Chopin: la musica popolare. La seconda parte del concerto è interamente dedicata a Chopin, poiché Maurizio Polini è stato un grande interprete delle sue musiche, nonché vincitore del Concorso Chopin [nel 1960, ndr]. Questa scelta mi sembra più che naturale. Mi sento estremamente onorato di poter fare questa “sostituzione postuma” di Pollini. Sono molto felice e orgoglioso di poter suonare questo concerto».
Non so se sarà d’accordo sul fatto che la musica “colta” attraversa attualmente una certa crisi. Ha già parlato dell’importanza del pubblico, ma è proprio il pubblico, soprattutto quello più giovane, ad essere meno interessato al repertorio classico rispetto alla produzione commerciale. Teme che la crisi possa aggravarsi? Anche in relazione al suo lavoro, alla missione di cui parlavamo, in senso artistico più ampio. Quali sono le principali difficoltà quando si parla di una carriera solista. Se potesse consigliare i giovani pianisti che sognano oggi un percorso professionale simile, cosa comporta oggi una scelta del genere?
«Per quanto riguarda la crisi, penso che dipenda dalla parte del mondo in cui ci troviamo. Ad esempio, quando suono concerti in Asia, Giappone o Corea, sono molto sorpreso nel vedere quanti giovani vengono ai concerti. Presto sarò in Cina e ho sentito che lì c’è un enorme interesse per la musica classica. Molti giovani studiano uno strumento, quindi è sicuramente un mercato molto ricettivo anche per quanto riguarda l’organizzazione dei concerti dal vivo. Per quanto riguarda l’Europa, in alcuni posti vedo pochissimi giovani, tuttavia credo che questo dipenda anche da un certo approccio all’educazione musicale. Penso che gli artisti possano svolgere un ruolo importante in questo senso, per rendere le persone più interessate alla musica.
Negli ultimi anni ho cominciato a fare dei discorsi sulla musica. Ho deciso di tenere concerti anche nelle scuole del mio paese, nei piccoli centri, in modo che suonando un repertorio specifico potessi anche parlarne e che i giovani potessero conoscere la musica in maniera più approfondita. Perché i giovani siano consapevoli che la musica classica non è così ermetica e tutti hanno il diritto di assistere ai concerti e di godersi questo repertorio. Penso che la giusta selezione del programma e la giusta scelta delle parole possano far sì che i giovani si interessino sempre di più alla musica. In una certa misura è anche un nostro compito preparare tali progetti educativi. Più giovani partecipano a questi eventi e maggiore è la speranza di allontanare la crisi.
Per quanto riguarda la seconda domanda, penso che la forza trainante fondamentale della nostra carriera siano i sentimenti che proviamo nei confronti della musica e dell’arte, cioè semplicemente il cuore che mettiamo nella musica, nell’interpretazione delle composizioni: è la cosa più importante. Dobbiamo chiederci se amiamo, se ci dà una grande gioia suonare lo strumento e trasmettere la nostra interpretazione ad altre persone, oppure no. Se rispondiamo positivamente a questa domanda, ciò fornirà un’ulteriore spinta alle nostre attività concertistiche anche sotto aspetti più tecnici. Chiaramente esiste una certa minaccia che viene dalla commercializzazione dell’arte, caratteristica del nostro mondo moderno.
È anche molto importante selezionare le persone giuste che, in un certo senso, “gestiscono” la carriera, perché sappiamo che noi artisti non riusciamo a prenderci cura di tutti i dettagli. È ovvio che bisogna organizzare dei concerti e bisogna affidare questo compito a qualcuno. Ed è bello trovare le persone giuste che abbiano anche passione per la musica, perché così evitiamo diverse difficoltà, tra cui anche i pericoli di commercializzazione. È noto che pubblicizzare il concerto di un determinato artista è indispensabile nel mondo moderno e nei media moderni, ma ciò non dovrebbe mai oscurare quello che è fondamentale nella musica: il messaggio artistico, l’idea di condividere la bellezza con altre persone. Per questo motivo bisogna stare attenti a non permettere a se stessi di perdere questo amore, e a prendersi cura costantemente dello sviluppo della propria personalità».
Traduzione dal polacco di Monika Prusak