di Santi Calabrò
Che un’artista completa come Lera Auerbach si disimpegni egregiamente anche nel dirigere un’orchestra può apparire come una conseguenza ovvia.
La sua poliedricità è senza confronti: compositrice di successo planetario, capace di integrare diversi linguaggi in uno stile personale, pianista solida e dalle scelte interpretative intriganti, letterata versatile e pluripremiata (poetessa in lingua russa, autrice di aforismi in lingua inglese), artista visiva che disegna, dipinge ed espone con continuità, e naturalmente – come privarsi, seppure di sicuro qualcosa dimentichiamo – esploratrice della multimedialità. Come mai fa tutto questo, come mai riesce così bene dovunque si produca? A vederla dirigere si capisce tutto. Lera Auerbach risponde a un bisogno del corpo e dello spirito: creare e interpretare è il suo modo di respirare, di comunicare, di crescere, di pensare, di esprimersi; in una parola, di vivere. Il pericolo di cadere nel dilettantismo è evitato con la disciplina e la tecnica specifica di ogni attività, che probabilmente acquisisce non solo con facilità, ma anche divertendosi. Dal podio che domina l’orchestra il suo gesto è chiaro e perentorio, la gestione di grandi archi formali è sia sicura che ben trasmessa; si avverte inoltre che il lavoro sulla concertazione è affrontato con cipiglio artigianale. Il Teatro di Messina le ha affidato un programma sontuoso di musica russa, aperto da una delle più celebri pagine di Mussorgsky, la Fantasia per orchestra Una notte sul monte Calvo. Sarebbe bello, osserviamo, accedere ogni tanto alla versione originaria e non alla notissima orchestrazione di Rimsky-Korsakov, proposta anche in questa occasione, che tende a rendere festoso il sabba delle streghe smussandone i lati terribili e ancestrali. Tuttavia, come apertura di concerto, per l’equilibrio del programma, è certo preferibile questa riscrittura, tanto più se seguita da brani di intensità e drammaticità senza sconti quali il Secondo Concerto in do minore per pf. e orchestra di Rachmaninov e la Sesta Sinfonia in si minore “Patetica” di Ciaikovskij.
Auerbach regala una prova brillante nel brano di apertura e si mostra accorta anche nell’interazione con il pianoforte, mostrando perizia e discrezione appropriate quando l’orchestra accompagna, e capacità di adattamento alle intenzioni della solista Olga Kern. Infine, di fronte alla summa estrema e disperata del sinfonismo ciaikovskiano, Auerbach coglie il nichilismo di fondo dell’opera, ma non ne fa la cifra unica, affrontando i temi e le sezioni in cui prevale il modo maggiore con voluttà e persino gioia vitalistica. La Patetica riafferma così le ragioni della vita con lo stesso gesto con cui esplora tutti i lati del dolore. L’orchestra del Teatro ha risposto bene, nel complesso, alle sollecitazioni di un programma difficile e di una direzione esigente. In gran rilievo l’efficacia degli ottoni, anche sul punto delicato del contenimento delle dinamiche, e positiva in generale tutta la sezione dei fiati, dove le frequenti occasioni propizie hanno messo in evidenza lo stato di grazia del primo clarinetto. Volenterosi gli archi, anche se con qualche impaccio in Čajkovskij, soprattutto negli incipit dei movimenti più vivaci, a volte non chiarissimi nel profilo metrico. Olga Kern, come molti virtuosi, ha una visione più romantica che decadente del più famoso brano di Rachmaninov, interpretato in quanto estrema celebrazione del romanticismo eroico piuttosto che come suo frutto maturo, o postumo, e già toccato dall’estenuazione del linguaggio e dalla sfiducia in valori portanti di segno positivo. In fondo, quella che Kern rappresenta è l’impostazione più frequente, la più adatta per affermarsi nei concorsi pianistici, ma non certo l’unica. Non è questa, per fare un esempio per forza di cosa autorevole, la via esecutiva percorsa dall’autore, solista tra i più originali e geniali della storia dell’interpretazione, protagonista di letture inquietanti, persino cimiteriali, non solo nell’esecuzione delle sue musiche, ma anche risalendo a ritroso nel repertorio (senza risparmiare neanche la Seconda Rapsodia ungherese di Liszt).
Il pianismo plastico, corposo e massiccio di Olga Kern non sembrerebbe adatto a esplorare questi lidi; eppure, dopo aver mietuto tanti successi proponendo un Rachmaninov eroico e appassionato, Kern sembra avvertire la tentazione di strade inesplorate. Il punto forse meno convincente della sua performance messinese, quando il tema lirico del finale si presenta un’ultima volta in re bemolle maggiore, vede Olga Kern in ricerca, in cammino verso il mistero, anche se qui il rischio è di scivolare in un calo di tensione della forma poco congruente all’impostazione complessiva. La pressione sugli spettatori per via passionale e virtuosistica resta attualmente la dimensione prevalente, e in tal modo si va sul sicuro: le acclamazioni e due bis spericolati (uno Studio di Prokofiev e la trascrizione del Volo del calabrone) sono inevitabili. Il pubblico, per la verità, avrebbe gradito anche un bis orchestrale alla fine del concerto, ma il volto e la gestualità di Lera Auerbach “parlavano” e negavano. Ha talento anche per il teatro? Ci sarebbe da sorprendersi del contrario… Il messaggio è stato eloquente: «vi ringrazio di cuore, ma non è il caso di eseguire altra musica subito dopo la Patetica di Ciaikovskij».