di Attilio Piovano foto © Gavin Evans / Sony Classical
Sold out, pubblico delle grandi occasioni e un trionfo incredibile per il concerto della LSO allo Stresa Festival, la sera di domenica 3 settembre 2017: in assoluto l’appuntamento di maggior spicco dell’intero Festival, pur ricco di solisti, ensembles e direttori di livello, con programmi mai banali e stimolanti accostamenti. Sul podio Gianandrea Noseda che ha aperto la serata – concepita per intero all’insegna della letteratura russa – dirigendo l’inossidabile e sempre amato Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov dalle cinematografiche atmosfere: solista di lusso la fuoriclasse Khatia Buniatishvili – oggi al top delle classifiche, tra le più strepitose pianiste della sua generazione – che, pur essendo ancora assai giovane, è ormai interprete matura.
Nel Secondo di Rachmaninov, si sa, tutto si gioca in quei fatidici ed evocativi accordi iniziali che vanno graduati con una precisione di tocco millimetrica in un crescendo progressivo e ben calibrato. Catturata l’attenzione con l’esordio solistico che introduce poi all’orchestra, il resto viene di conseguenza (o quasi). Certo, occorrono dita d’acciaio e nel contempo grande sensibilità di tocco, intelligenza e magnetismo. Alla Buniatishvili non manca la dimensione atletica e il suo virtuosismo appare pressoché infallibile. Nei passi di bravura affrontati con sicurezza assoluta ed enorme souplesse, la giovane fuoriclasse della tastiera sfodera un’energia indicibile. Peraltro i cantabili risultano timbrati comme il faut. Magnificamente assecondata dalla LSO e da Noseda – che ha saputo delineare un ampio range dinamico, con pianissimi ultra delicati e per contro efficaci fortissimi, il tutto impreziosito da raffinatezze timbriche che poche altre orchestre al mondo possono permettersi – la Buniatishvili ha poi regalato grandi emozioni nel sognante movimento lento; indimenticabile, sul piano orchestrale, il trascolorare dal flauto al clarinetto, una gioia per le orecchie e per il cuore. Ancora emozioni nel Finale affrontato a velocità notevole, senza una sbavatura, senza un cedimento, giù giù sino all’effettistica coda che trascina gli applausi. Ovazioni e come bis un Liszt tra i più celebri, l’impervia Seconda rapsodia ungherese dove il solista pare librarsi sulla corda del funambolo, eseguita con abbacinante chiarezza e una brillantezza senza eguali. Pubblico in visibilio.
Poi ecco il Čajkovskij della Quarta Sinfonia dal caratteristico motto a delinearne l’atmosfera impregnata di fatalismo (ma non solo). E qui occorre dirlo: raramente ci è accaduto di ascoltarne un’esecuzione di così grande bellezza ed emozionante capacità di coinvolgimento. E allora il primo tempo, dalle lancinanti fanfare degli ottoni, poderosi e luminescenti, ma anche dalle tenui delicatezze; e già qui si è compreso quale accurato lavoro di concertazione deve aver compiuto Noseda. Potendo disporre, beninteso, di una macchina meravigliosa, docile quale poche altre compagini al mondo. Esemplare, in tal senso, la stretta conclusiva del primo movimento con tutta la sua carica energetica. Poi gli orizzonti melanconici dello struggente Andantino, dall’inconfondibile ambientazione russa (la LSO ha prime parti di altissimo livello); quindi ecco lo humour crepitante dello Scherzo, vero tour de force in cui si richiede al pizzicato degli archi vigore e leggerezza, elasticità e potenza; un plauso speciale merita l’esattezza con cui Noseda e la LSO hanno reso gli insidiosi raccordi ritmici della seconda parte, quella in cui i fiati avviano un’ebbra fanfara e l’ottavino svetta con agilità. Il coronamento nel mobile e altisonante Finale che è emerso in tutto il suo vitalismo, sino alla riapparizione del ‘motto’ come uno spettro, un memento mori, poi spazzato via dalla concitazione dell’incandescente coda: dove pochissimi direttori riescono nel calibrare al meglio l’accelerando, con risultati emotivi destinati ad imprimersi nella memoria in maniera indelebile, sì da farne un’esecuzione davvero di riferimento. Applausi protratti e scroscianti e i compassati professori d’orchestra che finalmente abbandonavano il loro proverbiale aplomb britannico, sorridenti e visibilmente coinvolti essi stessi.
Francamente difficilmente la Buniatishvili può essere definita un’artista. Dotata di una tecnica d’acciaio affida unicamente al funambolismo esecutivo le proprie performances nelle quali manca totalmente quella riflessione musicale critica che è alla base di un’interpretazione musicale seria. Siamo costantemente nel solco dei fenomeni diretti a “épater le bourgeois” ma che a una disamina razionale mostrano tutta la loro modestia intellettuale. E anche il “glamour” degli abiti fa parte di questa esteriorità fine a sé stessa. Non che sia proibito provocare anche livello visivo ma solo se la cosa e corredata in un concerto da grandi qualità musicali altrimenti è solo il tentativo di impressionare un pubblico di bocca buona. Si pensi alla grande Yuja Wang che certamente provoca ma che musicalmente è un gigante …..