di Luca Chierici foto © Silvia Lelli
Immaginate il caso di un direttore “naturale” e allo stesso tempo giustamente fiero dei suoi studi di composizione, pianoforte e direzione d’orchestra con maestri celebri quali Vincenzo Vitale e Antonino Votto. Il giovane direttore termina gli studi a Milano, inizia presto una carriera che dapprima si svolge in patria e il suo repertorio tocca già alcuni dei comparti che renderanno famoso il suo operato in tutto il mondo. Quasi come per un sesto senso e una accorta capacità di pianificazione dei propri sforzi, il giovane direttore impara sul campo una verità che sarà di aiuto e guida nei passi successivi della carriera, quando si troverà di fronte alla possibilità di dirigere le maggiori orchestre del mondo.
Parliamo innanzitutto del repertorio sinfonico. Non esiste una orchestra che possa eccellere in tutto e Riccardo Muti – questo è ovviamente il nome del nostro protagonista – si trova a scegliere oculatamente un repertorio vasto che sembra però quasi diviso in partizioni: il Settecento e primo Ottocento italiano e austro-tedesco innanzitutto, che gli permette di far valere la sua capacità di analisi musicale, di individuazione del fraseggio più appropriato, del dominio delle sonorità più raffinate che l’orchestra possa esprimere. Poi le incursioni nel repertorio novecentesco, dove Muti sembra essere interessato più ai dettagli sonori che non sono presenti nella musica delle epoche passate, alle novità specifiche del linguaggio. Meno congeniale a Muti ci è sempre parso il repertorio tardo romantico, e qui non prenderemo in considerazione il suo pur eccellente Brahms, o Bruckner, o Čajkovskij, mentre all’intreno dei suoi vastissimi interessi si notano solamente due incursioni nel campo sinfonico mahleriano. Nella prima categoria Muti individua nelle orchestre italiane e austro-germaniche il veicolo ideale di espressione, nel secondo caso egli si rivolge di preferenza alle orchestre americane – ma anche all’orchestra della Radio di Monaco – e in questa sommaria elencazione si arriva oggi ad ascoltarlo a capo degli strumentisti della Chicago Symphony.
Nel programma presentato l’altra sera alla Scala durante la sua tournée europea, Muti ha offerto due momenti estremamente differenti del sinfonismo novecentesco, anticipati da una esecuzione rapinosa dell’Ouverture di una delle opere wagneriane da lui affrontate (anche alla Scala, nel 1988), Der fliegende Hollaender. Sia la Sinfonia Mathis der Maler di Hindemith, sia la terza di Prokof’ev erano state da Muti dirette in passato e le avevamo ascoltate alla Scala alla fine degli anni Ottanta (Hindemith, con la Philadelphia Orchestra) e alla fine degli anni ’90 (Prokof’ev, con la Filarmonica del Teatro). Prokof’ev era stato poi inciso in studio con la Philadelphia e in entrambi i casi sembra che il direttore individui nelle enormi potenzialità tecniche dell’orchestra di Chicago il veicolo ideale per trasferire la sua idea di sinfonismo novecentesco, almeno quello ricco di contrasti dei due lavori da lui affrontati in questa occasione. E dal suo punto di vista ha perfettamente ragione, perché le difficoltà racchiuse in queste due partiture sono numerosissime e solamente una compagine allenata all’impossibile può venire a capo di certi momenti di realizzazione difficilissima come i glissandi ripetuti degli archi nello Scherzo della terza di Prokof’ev o le complesse simmetrie della sinfonia che costò a Hindemith il definitivo allontanamento dalla Germania nazista. Della sinfonia di Prokofiev Muti sottolinea certamente il clima che la lega al capolavoro operistico del compositore, L’angelo di fuoco, ma è pur sempre la sfida strumentale ad attirare la sua attenzione e a richiedere la collaborazione massima da parte della sua orchestra. Pubblico in delirio, più per il carisma del direttore, forse, che per una reale comprensione della difficoltà del programma, e platea illustre nella quale spiccava la presenza di Maurizio Pollini, probabilmente prossimo partner del direttore in una serie di incisioni mozartiane. Alla tradizione italiana si è rivolto infine Muti per il bis, il vibrante Intermezzo dalla Fedora di Giordano.