di Luca Chierici
Per questo nuovo Ring, la Scala ha voluto fare le cose in grande. Lo si capisce facilmente dalla struttura del programma di sala che comprende elenchi e commenti ai leitmotive della tetralogia e addirittura una loro riunione “in costellazioni contraddistinte da colori diversi” a cura di Raffaele Mellace. Una guida che andrà tenuta presente a fianco dei prossimi tre volumi che completeranno prossimamente il cammino wagneriano.
Senza nulla togliere in termini di valore e priorità agli elementi in gioco, prima ancora che nella direzione e nelle componenti vocali l’interesse più vivo era insito nella regia di David McVicar, sostenuta dalle scene dello stesso in collaborazione con Hannah Postlethwaite, dai costumi di Emma Kingsbury, le luci di David Finn, i video di Katy Tucker, la Creografia di Gareth Mole e le “prestazioni circensi” e la cura delle arti marziali di David Greeves.
David McVicar non è nuovo nei confronti della regia del Ring ma è anche sensibile ai cambiamenti che questo lavoro pone di fronte al regista nel corso del tempo, in relazione a quanto succede nel mondo. La lettura strutturale della creazione in questo Ring è la scoperta da parte di Wagner del mito del Capitale, del valore dell’oro che è ancora adesso un elemento più che mai contemporaneo. Tutte le società sono governate dall’ossessione dell’accumulo dell’oro e nel Rheingold questa ossessione con tutto ciò che ne consegue a livello politico e sociale è già drammaticamente espresso. E accanto all’ossessione per la ricchezza c’è oggi una sfida negativa verso le risorse del pianeta, sfida che molto probabilmente ci porterà a una vera e propria Göetterdämmerung. Tutti questi temi saranno in realtà più evidenti nelle successive giornate del Ring sino al finale della Tetralogia ma già oggi Mc Vicar introduce elementi forti (una mano gigantesca a sipario chiuso, un teschio imponente nella scena terza) nel racconto relativo allo svolgimento dell’opera. Racconto che il regista porta a termine senza tante scelte cervellotiche che potrebbero rendere del tutto incomprensibile il soggetto, né attraverso eccessive stilizzazioni che si erano viste alla Scala ai tempi di Ronconi. Nella scena prima le tre ondine si rincorrono sullo sfondo di tre mani giganti e tengono a bada fin dove è possibile il nano Alberich; nella seconda, simile alla quarta, gli Dei agiscono alla base di due imponenti scalinate che simboleggiano il Walhalla; nella terza il Nibelheim è dominato da un teschio aureo che simboleggia forse le ricchezze accumulate da Alberich. Il racconto si materializza quindi secondo McVicar in un percorso di facile comprensione per lo spettatore.
A guidare musicalmente il discorso avevamo una direttrice d’orchestra di talento, l’australiana Simone Young, la prima donna ad affrontare il Ring alla Scala dopo averlo diretto in varie sedi e soprattutto a Bayreuth. La Young nella sua presentazione del titolo ha parlato del significato delle diverse buche che ospitano l’orchestra e riferendosi alla buca scaligera ha ricordato come molte delle prove sono state dedicate alla ricerca di un suono “sostenuto ma trasparente” paragonabile a quello che si ottiene a Bayreuth. Il risultato si è rivelato palese e ha aiutato il pubblico a districarsi nella complessa partitura senza perdere un dettaglio. Merito anche della compagnia di canto (“un cast il migliore possibile” secondo la Young) che ha illustrato superbamente, forse con la sola eccezione di un Loge non perfetto, l’apporto vocale che sostiene la grande commedia del Rheingold.
Alberich dapprima molto impacciato nel corteggiamento delle figlie del Reno è stato il basso Olaf Sigurdarson che è abilmente transitato da una posizione succube a una di potere e poi ancora di disgrazia quando l’abile Loge gli chiede di mettere alla prova il magico velo di cui si è impossessato. Michael Volle si è rivelato un Wotan possente ma anche più “terreno” di quanto la sua posizione potrebbe far credere, attirato com’è dalla potenza dell’anello e solo più tardi convinto della sua maledizione dall’intervento profetico di Erda. I giganti hanno fatto un training di tre settimane per imparare a muoversi su sostegni che li fanno obiettivamente sembrare più imponenti del normale, anche nei confronti della stirpe degli dei. Jongmin Park e Ain Anger hanno dato prova di ottima compenetrazione dei rispettivi ruoli fino al tragico epilogo della loro fratellanza. La Fricka di Okka von der Damerau ha sottolineato il ruolo supplichevole di moglie che tenta in tutti i modi di salvaguardare la presenza di Freia nel Walhalla. Quest’ultima (Olga Bezsmertna) ha dato voce un poco fioca a un personaggio terrorizzato dalla possibilità di dare l’addio per sempre al Walhalla in favore della “compagnia” dei giganti. Donner (Andrè Schuen) e Froh (Siyabonga Maqungo) hanno bene interpretato il loro ruolo divino più di nome che di fatto mentre il Loge di Norbert Ernst ha più convinto dal punto di vista scenico che da quello vocale, muovendosi in maniera inventiva sia nel Walhalla che nel Nibelheim.
A parte qualche defezione di pubblico, forse ignaro della lunghezza e complessità del verbo wagneriano, la risposta della sala ha raggiunto toni entusiastici tranne che nel caso di sparuti gruppi di loggionisti in disaccordo con la Young e McVicar. Le prime tre date di questo Rheingold risultano dirette dalla Young mentre le ultime tre dall’inglese Alexander Soddy, che debutta alla Scala.