di Luca Chierici
Una replica dello spettacolo che è andato in scena nel 2016, in coproduzione con il Festival di Salisburgo, ha avuto il merito di assicurare il tutto esaurito alla Scala e un successo di pubblico davvero magnifico, con grandi applausi alla fine dei tre atti del Rosenkavalier di Richard Strauss.
Non era forse merito della regìa di Harry Kupfer, che ha coordinato i movimenti dei personaggi secondo un cliché tutto sommato ordinario, né delle scene di Hans Schavernock che illustravano il mood dell’opera attraverso grandi proiezioni fotografiche della Vienna storica (senza disturbare più di tanto il soggetto). Il polo di attrazione, se così lo si può definire, era quasi tutto insito nell’eccellente presenza del direttore Kirill Petrenko che ancora una volta si è confermato lettore di straordinaria sensibilità per ogni particolare della complessa partitura straussiana: non abbiamo quasi mai ascoltato l’Orchestra e i Cori del Teatro alla Scala prodursi con tanta precisione, bellezza di suono, attenzione a tutte le minuziose richieste del direttore come l’altra sera è accaduto con Petrenko. E ascoltare un capolavoro come il Rosenkavalier sotto queste premesse era davvero un piacere estetico quale difficilmente si assapora in teatro.
Merito anche, questo è vero, degli interpreti principali: Krassimira Stoyanova era ancora – rispetto alle rappresentazioni del 2011 – una Marescialla di tutto rispetto, forse fin troppo aderente a un personaggio che vede quasi fin dal principio la fine imminente del suo amore per il giovane Quinquin e l’avanzare inesorabile dell’età matura. La celebre scena finale del negretto che raccoglie il fazzoletto perduto si trasforma in un molto più allusivo gesto del cameriere di colore che, dopo avere accompagnato Marescialla e Faninal su una lussuosa limousine, trova il reperto dimenticato e lo annusa voluttuosamente fermandosi davanti alla porta della camera da letto della padrona, ovvio preludio a una nuova scena d’amore non ancora scritta. Günther Groissböck, altro interprete presente nell’edizione precedente, ha giocato con intelligenza il suo ruolo di grossolano amatore senza calcare troppo la mano su una figura che purtroppo si presta ad eccessi di ogni sorta. Anzi, Ochs ci appare subito troppo elegante e “in forma” rispetto al goffo e ridicolo barone della tradizione, colpa questa dell’aitante basso che rende meno credibili le ritrosie di Octavian en travesti. Kate Lindsey ha prestato voce interessante al personaggio di Octavian, forse immedesimandosi fin troppo nel ruolo di amante che si lascia trasportare dagli eventi come se il suo amore per Bichette e Sophie fossero accadimenti incontrollabili in entrambi i casi. Splendida Sophie era Sabine Devieilhe, lei sì convinta dopo i primi tentennamenti nel suo amore per il giovane Cavaliere. Bravi i comprimari tutti, con un accento per il tenore italiano Piero Pretti che ha dato voce a un ruolo di difficoltà proibitiva perché introduce un tocco di classicità in un contesto di “musica nuova”. E bravi il Coro del Teatro diretto da Alberto Malazzi e quello di voci bianche dell’Accademia diretto da Marco De Gaspari. La sommatoria di queste caratteristiche rende lo spettacolo davvero imperdibile per chi ha l’opportunità di frequentare il Teatro.