di Attilio Piovano
Nella storia del melodramma non è certo infrequente imbattersi in un soggetto messo in musica da più di un autore: nel mondo arcaico, di fatto era la norma (si pensi ai vari Orfeo ovvero alle innumeri versioni della metastasiana Didone abbandonata, alle Armida e alle Griselda per limitarsi ai casi davvero emblematici). Tralasciando buona parte del ‘700, dacché anche solo citare i topoi più significativi occuperebbe troppo spazio (le varie Iphigénie e via elencando), in ambito ottocentesco si va dal doppio Falstaff (Salieri e Verdi) al frequentato mito di Faust o all’infelice vicenda di Romeo e Giulietta, giù giù – sconfinando nel ‘900 – sino alle due Bohème (di Puccini e Leoncavallo), ovvero alla gozziana Turandot che sedusse, oltre al lucchese, altresì Busoni. E Francesca da Rimini e Parisina ovvero le ricercatezze delle quasi ‘gemelle’ Maria Egiziaca di Respighi e la ghediniana Maria d’Alessandria. Al lettore colto e informato, ovviamente, il piacere di proseguire a lungo il gioco della ricerca e della citazione.
E il personaggio di Manon? L’immortale eroina e ‘cortigiana’ (ma la definizione è senz’altro riduttiva) immaginata dall’abate Prévost? Ogni melomane è in grado di rammentare l’omonimo titolo che Massenet mandò in scena nel 1884 e così pure il superbo specimen pucciniano (Manon Lescaut) che al Regio di Torino ebbe la sua première nel 1893. Pochi, invece, ne siamo pressoché certi, saranno in grado di citare, così su due piedi, il precedente dovuto all’estro creativo del francese Daniel Auber che, di fatto, fu il primo (1856) ad essersi accostato al soggetto in questione. Così pure pochissimi sono i casi di rappresentazione dei tre titoli a distanza ravvicinata. In Italia a quanto pare è la prima volta. Ad averci pensato, direzione artistica e sovrintendenza del Regio di Torino per una ‘triplice’ inaugurazione – è il caso di dirlo – della stagione 2024/25: non già in ordine cronologico, per intuibili motivazioni (del resto siamo pur sempre nell’anno del centenario del compositore lucchese la cui Manon Lescaut, lo si diceva più sopra, ha un legame storico con Torino), bensì in ordine inverso. E allora Puccini (la sera di martedì 1° ottobre 2024), Massenet (5 ottobre) e infine Auber (per il quale occorrerà attendere il prossimo 17 ottobre e del quale riferiremo in seguito).
L’idea portante è stata quella di affidare l’intera ‘operazione’, per così dire, a un unico regista, il fantasioso Arnaud Bernard che ha avuto fin da subito le idee molto chiare su come muoversi, in modo da garantire una sorta di unitarietà di visione alle tre pur assai dissimili partiture incentrate su un’unica protagonista (beninteso, con tre direttori diversi e tre interpreti per quell’unica figura femminile). E allora ecco una vera e propria sfida, quella di Arnaud Bernard che ha intenzionalmente puntato sul binomio di opera lirica e cinema con ampie inserzioni da significativi film appartenenti a epoche iconiche della cinematografia francese, del resto si sa che Puccini fu il primo ad intuire il valore di una musica con valenze, se possiamo permetterci, di tipo ‘cinematografico’, sia concessa la metafora un po’ ardita (e si sa che il cinema, dagli esordi di primo ‘900 fino all’attuale singolarissimo museo, con Torino ebbe sempre una speciale liason: Torino vera e propria ‘città del cinema’). Sfida pienamente riuscita, quella di Arnaud Bernard soprattutto nel caso della partitura di Massenet, un po’ meno al cospetto del capolavoro pucciniano. Una sfida anche di tipo produttivo, sia detto per inciso, con complessive 21 recite concentrate nel solo mese di ottobre che si intersecano le une alle altre, offrendo un bel range di possibilità al pubblico.
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E allora tanto vale partire dal musicista francese che ha una sua precisa idea di Manon, femme fatale, e costruisce – si sa – un melodramma di singolare brillantezza e ‘leggerezza’ musicale, ma con momenti altresì di singolare intensità e una strumentazione di rara bellezza e raffinatezza. Cinque atti e sei quadri che, nell’allestimento torinese, sfilano via senza cedimenti e appaiono godibilissimi. Sulla scena, tutta giocata sul bianco e nero allusivo al mondo del cinema, incombe un tribunale, a rendere palpabile il senso di ‘condanna’ sociale della protagonista peccaminosa e origine di scandalo, quando il romanzo di Prévost venne pubblicato (e fu subito condannato e sequestrato). L’idea è quella di abbinare ampi stralci dal film di Cluzot La Vérité (datato 1960), con le immagini e i fotogrammi del processo che hanno un contraltare nel citato tribunale scenico, protagonista una incantevole e sensuale Brigitte Bardot, emblema di emancipazione femminile e libertà sessuale, disinvolta e ‘selvaggia’. E allora sulla scena ecco ricreata, con libertà, una Manon che è un po’ l’alter ego della indimenticabile BB, scalza e disinvolta. Suggestive le scene del film con il suicidio della protagonista che si taglia le vene in carcere, e che a modo loro corrispondono con la morte sulle scene di Manon stessa. Un po’ di eccessiva confusione, forse, in apertura di spettacolo, con troppa gente che si muove sulla scena, ma bellissima (ancorché non nuova) l’idea, poi vero e proprio leit motiv registico, del fermo immagine, ovvero protagonisti e coristi tutti immobili ma poi pronti a rianimarsi ad un semplice cenno, uno schiocco di mani, un clangore di partitura. Di grande intensità il terz’atto, vero clou drammaturgico dell’opera che annovera momenti frivoli , comicità brillante, calco di elementi settecenteschi, passaggi di vero e proprio raccoglimento mistico (l’interno della chiesa di Saint-Sulpice), ma che sono destinati a culminare con la scena peccaminosa dell’amore addirittura dentro a un confessionale. Momenti hard, ma di classe, anche in seguito quando Manon viene sessualmente brutalizzata da Guillot de Morfontaine e lei si vendica uccidendolo.
Un plauso specialissimo ad Evelino Pidò per il lavoro eccellente compiuto in sede di concertazione: ha saputo dare l’esatto peso ad ogni singola nota, il colore giusto ad ogni scena, trascolorando per l’appunto entro i variegati e dissimili registri di una partitura sopraffina, ottimamente assecondato dall’orchestra del Regio in grande forma. Un successo personale quello di Pidò, a lungo applaudito e festeggiato. Ottimo il cast con Ekaterina Bakanova a giganteggiare, sia sul piano vocale (giustamente ammirata e a lungo applaudita), sia sotto il profilo squisitamente attoriale. Le ha ben tenuto testa il tenore Atalla Ayan nei panni di Des Grieux e i momenti celebri da menzionare sarebbero moltissimi, ma è solo per ragioni di spazio che non è possibile addentrarvisi. Apprezzato anche il baritono Björn Bürger (Lescaut), così pure per l’autorevolezza vocale e scenica il navigato Roberto Scandiuzzi nelle vesti del conte des Grieux. Assai ammirato il tenore Thomas Morris, dalle singolari capacità attoriali, per la vocalità caricaturale e il fare scenico lascivo nei panni del già citato Guillot. Tutti allineati su un elevato livello i comprimari e dunque il baritono Allen Boxer (De Brétigny), il soprano Olivia Doray ed i mezzosoprani Marie Kalinine e Lilia Istratii (le frivole Poussette, Javotte e Rosette).
Molto efficaci le scene di Alessandro Camera, con momenti particolarmente felici, per dire la ricostruzione di una sorta di atelier con tanto di mini sfilata e fascinosi i coerenti costumi di Carla Ricotti (in luogo del parigino e affollato quartiere Cours-la-Reine). Ottime le luci di Fiammetta Baldisseri con alcuni istanti particolarmente significativi ed efficaci, a sottolineare certi tratti della partitura che si conclude con commovente tragicità. Successo pieno e applausi convinti a tutti, da parte di un pubblico ahinoi, spiace dirlo, non foltissimo la sera della prima, ed è un vero peccato dato il grande sforzo produttivo e così pure pubblicitario posto in atto. Molto bene, come sempre, il Coro del Regio (maestro del coro l’impeccabile e professionale Ulisse Trabacchin).
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Meno riusciti, lo si anticipava più sopra, gli innesti cinematografici (dal Porto delle nebbie, da Amanti perduti o L’angelo del male). Partiamo dal fondo: quella pur sensuale e fascinosa carrellata antologica di baci cinematografici durante il sublime intermezzo sinfonico, prima del tragico epilogo, finivano per distrarre un poco, nulla aggiungendo alla sovrana partitura del lucchese. Ancor più, si percepiva una sorta di gap, qualcosa come di irrisolto, nel finale appunto, con quelle immagini in movimento, incessanti e ipnotici fotogrammi coinvolgenti, ma distraenti di dune a perdifiato e si finiva per concentrarsi poco su Manon morente in primo piano, che a coincidere con le immagini della morte filmica di Manon col viso coperto di sabbia. A molti è piaciuto, mentre altri hanno trovato l’idea un poco stucchevole ed esornativa, nonché per l’appunto distraente. Già l’esordio dell’opera con l’idea di un set cinematografico ricreato pareva in parte esornativa se non gratuita. La visione a distanza ravvicinata delle due opere di Puccini e Massenet ha consentito di ammirarne ed apprezzarne, stimandole, le differenze, ma altresì le innegabili bellezze e singolarità di entrambe le partiture che si sono, per così dire, riverberate l’una nell’altra. Francamente eccessive le prostitute in procinto di partire al porto di Le Havre, trasformate in esagitate psicotiche e ninfomani. Renato Palumbo dal podio la sera della prima non sempre ha avuto mano felice nel dipanare la superba partitura pucciniana, in qualche caso eccedendo in passionalità quasi verista, con ondate ‘pseudo wagneriane’ che finivano in qualche caso per travolgere e sovrastare le voci. Ha però centellinato non pochi punti con grazie ed eleganza, potendo contare anche in questo caso su una compagine perfettamente oliata ed affiatata, superlativa in tutte le sue sezioni. Così pure apprezzata anche in questo caso la performance del coro.
Ed ora il cast. Erika Grimaldi ha conquistato il pubblico che la ama e la segue, anche se talora ha rivelato eccessi negli acuti, un poco striduli; bene, ma non benissimo Roberto Aronica nei panni di Renato Des Grieux dal quale si sarebbe voluta un po’ più di eleganza e meno veemenza passionale. Bene il baritono Alessandro Luongo (Lescaut) e bene l’inossidabile e sempre valido Carlo Lepore (Geronte, che viene fatto morire in scena); validi i comprimari. A fine serata applausi convinti al cast (e così pure al focoso direttore) ed anche in questo caso, la sera della prima, il pubblico era numericamente al di sotto delle aspettative, un vero peccato. Qualche perplessità da parte del pubblico (poi confermata anche nella replica, per dire, di domenica 6) in merito alla regia. Un’ultima annotazione: quella lunga, insistente ed un filo didascalica sequenza di immagini marine (i modellini di navi finte in preda alla tempesta) hanno aggiunto troppo realismo, impedendo alla fantasia dell’ascoltatore di ‘navigare’ invece con la mente sino alle coste dell’America per assistervi alla tragica morte dell’eroina Manon e al definitivo coronamento del binomio di eros e thanatos che Puccini sublima in una partitura di sovrumana bellezza, già anticipatrice di molte cose future. A dir poco un genio. Appuntamento con Auber per la ‘sua’ Manon, in prima esecuzione a Torino ed in abbinamento, à rebours, con significativi exempla di cinema muto francese di primo ‘900. Stay tuned.