di Attilio Piovano
Con Manon Lescaut di Daniel Auber, andata in scena a Torino la sera di giovedì 17 ottobre 2024, il Teatro Regio ha felicemente completato il trittico incentrato sulla protagonista del romanzo di Prévost cui si ispirarono, nell’ordine cronologico, per l’appunto Auber (1856), poi Massenet (1884) e da ultimo il sommo Puccini (1893).
A Torino il titolo di Auber non era mai approdato. Una novità assoluta dunque per il pubblico (numeroso) ed anche, possiamo ben dirlo, verosimilmente per buona parte dei critici. La musica è frizzante e piacevolmente scorrevole, con echi e reminiscenze donizettian-rossiniane, vistose assonanze rispetto ad Offenbach, ma invero con una sua precisa fisionomia. Anche la vocalità, massime quella della protagonista, è brillante e richiede doti di virtuosismo non comuni, da soprano leggero, ovvero di coloratura: una protagonista volubile e superficiale, spensierata, aproblematica, avida di denaro e moderatamente ambiziosa, il cui credo è divertirsi, ridere e sognare, salvo poi incontrare l’amore vero (come aveva preconizzato l’amica Margherita) e ricredersi, quanto meno in parte.
La partitura di Auber – un’opéra-comique in tre atti dai numerosi dialoghi parlati (come di norma) – infatti è molto diversa rispetto alle omologhe di Massenet e poi Puccini. Scritta su libretto del navigato Scribe, che pur tuttavia ha predisposto un plot a dire il vero eccessivamente macchinoso e dispersivo, si mantiene su un livello di commedia borghese (evitando dunque i toni pruriginosi e gli elementi che del romanzo di Prévost erano stato motivo di scandalo). Nel finale, tuttavia, si fa tragica, dacché la conclusione prevede la deportazione e quindi la morte di stenti della protagonista nelle lande desolate della Louisiana. E questo destabilizza un poco, ovvero fa sì che si percepisca l’opera come un lavoro a due velocità, con un gap drammaturgico non da poco. Vien da pensare al beethoveniano Fidelio – ma il paragone ce ne rendiamo ben conto non sarà certo da prendere alla lettera, più che altro sia concessa una suggestione, per capirsi – dove analogamente il tono da commedia della prima parte collide poi con il pathos che ne consegue (sia pure contemperato dal lieto fine come da abitudini del genere della cosiddetta opéra à sauvetage).
Per inciso, l’arruolamento da parte di Des Grieux, allo scopo di procurarsi denaro, pare il contraltare del pur dissimile e timido Nemorino, così come, sia pure su un altro piano, la sua insubordinazione nei confronti di un superiore, anticipa, a suo modo, don José che, in Carmen, ferisce Zuniga, ma sono dettagli. Improbabile poi nel libretto di Scribe, invero un po’ strampalato, che Manon e l’amica Margherita si incontrino proprio in Louisiana dove l’una è stata deportata e l’altra è invece prossima alle nozze.
Il direttore Guillaume Tourniaire (dal gesto singolarissimo e anomalo, ma pur perfettamente funzionale), al suo felice debutto al Regio di Torino, ha fatto del suo meglio per assecondare ogni minima piega della effervescente partitura (quanto meno tale nel primo atto), attento agli equilibri tra voci e orchestra, abile nel centellinare ogni singolo fraseggio e nel porre in evidenza il côté spumeggiante, insomma un ottimo lavoro di concertazione, il suo, ed è perfino riuscito ad evitare (almeno in parte) quel senso di lungaggine in apertura del secondo atto e l’eccessiva dilatazione assai monocroma del troppo esteso finale, dove la tensione di fatto viene meno ed il rischio della noia è dietro l’angolo, pur in presenza di assunti drammatici.
Ed ora le voci. Meritatamente applaudita (nonostante un piccolo incidente di percorso la sera della prima e malgrado una voce piccola) il soprano Rocío Pérez nei panni di Manon, e non solamente nella celeberrima, fatua e fin abusata aria cosiddetta dell’éclat de rire, che richiede non comuni capacità, ma anche per dire in certi tratti patetici (vedasi l’aria cantabile «Non più sogni inebrianti»). Bene complessivamente tutti i componenti del cast e dunque il baritono Armando Noguera (il marchese d’Hérigny), soprattutto il tenore Sébastien Guèze ad impersonare Des Grieux e così pure il basso Francesco Salvadori (Lescaut). Un cenno speciale per l’esperta Manuela Custer (mezzosoprano) nel ruolo cammeo della piccata Madame Bancelin, adirata per il mancato pagamento del conto all’osteria dopo il lauto pranzo. Molto bene tutti i cantanti anche sotto il profilo scenico. Da rilevare inoltre come non sempre sia facile, laddove come nell’opéra comique ci si trovi in presenza di dialoghi parlati, incontrare una recitazione accettabile. In questo caso, invece, il tono enfatico come pure la gestualità ‘cinematografica’ voluta dal regista, funzionavano bene e ben si armonizzavano con il tutto. Validi i comprimari tra i quali merita citare almeno la performance del soprano Lamia Beuque (Margherita). Non sempre e non tutte le voci risultavano però perfettamente udibili, ma ciò non va imputato alla direzione, lo si diceva, attenta agli equilibri. Lo si registra come un dato di fatto.
Ed ora la regia. Il fantasioso Arnaud Bernard, cui è stata affidata l’intera trilogia, anche in questo caso ha puntato sul mondo del cinema, risalendo addirittura all’epoca del muto, con doppio omaggio alla creatività dell’indimenticabile Georges Méliès, vero inventore del cinema (dacché fu il primo a concepire storie, al contrario del filone documentaristico dei fratelli Lumière) ed idealmente, nelle parole del regista stesso, «alla poco nota Alice Guy, in assoluto la prima regista donna della storia di questa arte». Le scene prevedono infatti un set cinematografico idealmente collocato nell’atelier di Méliès stesso a Montreuil. Non solo, ancora una volta la regia alludeva al ruolo di Torino come prima città italiana dove il cinema fu protagonista con i suoi celebri teatri di posa dalle ampie vetrate ed è oggi orgogliosa del suo singolare museo del cinema.
In questo caso la sintonia tra proiezioni e messa in scena appariva (al contrario di quanto lamentato in Puccini) perfettamente in sintonia e soprattutto funzionale alla vicenda. Si trattava di ampi stralci, già nel corso dell’ouverture, tratti dal film When a man loves del 1927 diretto da Alan Crosland, con Dolores Costello protagonista. Valida l’idea di fingere appunto un set cinematografico, con troupe, scene movimentate a vista, operatori, regista con tanto di megafono, attori ed attrici, il responsabile della moviola che, con spregiudicato accostamento, si trova a lavorare tra arredi e scene settecentesche. Forse ci sono state un po’ troppe gags che a tratti disturbavano o per meglio dire saturavano, distraendo un poco lo spettatore, ma è stato peccato veniale. Anche la gestualità, enfatica e ridondante, lo si anticipava più sopra, da ‘fatali’ dive del cinema muto, alla maniera di Francesca Bertini, aveva una sua ratio.
Un cenno speciale va riservato alle maestranze del Regio per aver posto in atto un lavoro eccellente quanto a scene dipinte a mano, come da ultra secolare tradizione, montaggio delle scene ‘a vista’ da parte di attrezzisti ed addetti, insomma un modo intelligente e davvero valido per valorizzare un patrimonio di conoscenze e professionalità che non deve assolutamente andare disperso, a favore di computer e light design (da utilizzarsi certo, ad affiancare, ma non a sostituire tout court come sempre più spesso avviene, l’arcaica manualità). A firmare scene e costumi stilisticamente appropriati rispettivamente Alessandro Camera e Carla Ricotti. Funzionali le luci di Fiammetta Baldiserri.
Di grande efficacia scenica il momento del pranzo nella locanda, con il mancato pagamento: soprattutto il concertato finale che ha regalato momenti di puro divertissement. Apprezzati i movimenti in perfetta sintonia di tutti i cantanti e delle masse del coro, davvero di forte impatto. Da ultimo un plauso al coro ottimamente istruito da Ulisse Trabacchin.
Un allestimento del quale conserveremo gradito ricordo, pur consapevoli dei limiti di una partitura a suo tempo applaudita e di gran successo, oggi di fatto uscita di repertorio, ragionevolmente posta in ombra dai titoli di Massenet e Puccini. Alla direzione artistica e sovrintendenza del Regio resta il merito di un notevole sforzo produttivo, ovvero aver mandato in scena tre opere dissimili in un lasso di tempo limitato e concentrato, con relative repliche, con il vantaggio per il pubblico di poter confrontare le tre partiture enucleandone differenze e analogie, pur in presenza di un medesimo soggetto.