di Luca Chierici
Giunto oramai al cinquantesimo anniversario delle proprie produzioni, il Festival della Valle d’Itria ha inaugurato quest’anno la stagione con due scelte che non attingevano purtroppo a tutta una messe di titoli ancora da scoprire e concepiti da compositori barocchi o ottocenteschi romantici nati nell’Italia meridionale, bensì con due titoli dei quali uno era sicuramente discutibile anche se si riconduceva alla passata “gestione Celletti” : si trattava dell’edizione originale di Norma per due soprani (1977) che non si è rivelata proprio un successo per diversi motivi. Il Direttore Fabio Luisi, corretto concertatore ma senza particolari estri interpretativi si è affidato a un complesso di regìa scene e costumi e a una compagnia di canto che non brillavano per interesse e bravura. La regìa di Nicola Raab e la scenografia di Leila Fteita ambientavano il dramma in uno spazio che si riduceva a una parete curva di colore amaranto, due vani di entrata e uscita dei personaggi, la proiezione della quercia di Irminsul e poi delle fiamme che illustravano il rogo purificatore finale. Una regìa che era fatta di sguardi tra i personaggi e piccoli dettagli che il pubblico non poteva apprezzare data la vastità del palcoscenico del Palazzo Ducale ha accompagnato piuttosto staticamente la vicenda che vedeva i personaggi di Norma e Adalgisa del tutto soccombenti nei confronti di Pollione. Norma era Jacquelyn Wagner, americana ma formata in Germania, voce assente da qualsiasi forma di vibrato ma alla fine troppo fissa e poco espressiva nonostante l’accuratezza dei virtuosismi richiesti dalla parte. Valentina Farcas, Adalgisa, aveva voce leggera, aggraziata ma poco rispondente a un ruolo che richiede maggiore compenetrazione. Airam Hernandez è stato per contro un ottimo Pollione, sicuro e sorretto da una vocalità interessante, mentre poco felice è stato l’Oroveso di Goran Joric. Il Coro del Petruzzelli era diviso in due gruppi collocati agli estremi opposti della scena, stratagemma che ha causato a volte dei problemi di sincronia. Ottima la rispondenza da parte dell’Orchestra del Petruzzelli, che ha seguito nei minimi dettagli le richieste di Luisi e che in fondo ha portato la recita a un franco successo di pubblico, dovuto essenzialmente alla bellezza e al fascino dell’opera famosa.
Più in linea con il carattere del Festival e sorretta da una interpretazione musicale eccellente e da prestazioni vocali di tutto rispetto è stata invece l’esecuzione di Ariodante di Haendel che si è tenuta al Teatro Verdi. La scelta di questo titolo rimandava all’influsso dell’originale poema ariostesco sulla produzione musicale e teatrale a partire dal ‘600. L’Orlando furioso è infatti una vera e propria miniera di personaggi e situazioni che solleticarono l’immaginazione di molti musicisti. Haendel scrisse il più famoso e ben riuscito soggetto musicale partendo dai canti in cui si narrando le vicende di Ariodante e Ginevra, su testo librettistico di Antonio Salvi sopra il quale – ci informa Dinko Fabris nelle preziose note di sala – si appoggiarono una trentina di compositori per i loro lavori musicali. Il complesso testo ariostesco d’origine narra le vicende che portano alla fine al felice matrimonio tra Ariodante e Ginevra nonostante le difficoltà create dalla dama di compagnia di Ginevra, Dalinda, e dal Cavaliere Polinesso. L’opera haendeliana risale al 1735 e inaugurò la prima stagione del Covent Garden senza un particolare successo, che giunse ben più tardi (1926) quando l’opera venne ripresa a Stoccarda. Nei nostri tempi è rimasta famosa una indimenticabile versione prodotta nel 1982 alla Piccola Scala per la direzione di Alan Curtis. Mai rappresentato a Martina Franca, Ariodante è stato il titolo di spicco della cinquantesima edizione del Festival ed è stato scelto anche come soggetto celebrativo dei 550 anni della nascita dell’Ariosto. Il progetto musicale è stato preso in carico da Federico Maria Sardelli in base all’autografo dell’opera conservato alla British Library. In questo caso non erano previsti i balli, aggiunti in occasione della prima rappresentazione originale. Lo “strumento” di Sardelli era la notevole orchestra barocca Modo Antiquo che ha assecondato ovviamente la visione del Direttore, di eccellente pregio nello sviscerare i multiformi aspetti musicali del titolo. Il ruolo del quale, originariamente pensato per il castrato Giovanni Carestini era affidato al mezzosoprano Cecilia Molinari che si è imposta per voce piena, omogenea in tutta la tessitura e carattere perfettamente aderente al complesso personaggio. Sei arie, un arioso e tre duetti con Ginevra hanno portato alle stelle la reazione del pubblico, che al termine ha riservato alla Molinari una vera e propria ovazione. Ginevra era Francesca Lombardi Mazzulli, sempre sorridente presenza, anch’essa di notevole spessore nelle sue sette arie. Quale Polinesso il mezzosoprano Tersa Iervolino si è riconfermata notevolissima cantante che qui affrontava il non facile ruolo pensato originariamente per contralto. Theodora Raftis era un’ottima Dalinda, Biagio Pizzuti, basso con voce morbida ma potente, ha riscosso anch’esso il favore del pubblico, così come il Lurcano di Manuel Amati è stato applaudito per la presenza scenica e la appassionata performance vocale. Il regista Torsten Fischer ha lavorato sui movimenti dei personaggi relativamente limitati dal palcoscenico a impostazione fissa. Lo scenografo Herbert Schaefer ha pensato a proiezioni sullo sfondo che illustravano tra l’altro una grande Luna di ispirazione ariostesca. Un poco monotoni i costumi neri (a parte il bianco dei sponsali) di Vasili Triantafiliopoulos. Grande successo per tutti i protagonisti.